
Non c’è più casa natale né casa in cui sei morto, non alte librerie, non più pareti.
Non sei nei luoghi angusti; non c’è più erba né albero; sono rimaste
le stelle da guardare, per immersione fra i loro spazi
violetti al principio di uno spettro di colori da conoscere;
gli atomi nudi dai loro veli, come vuoto ed energia, movimento che fu misura
del tempo illusorio; vivono senza morire, evolvono senza cambiare.
Tutto questo penso in una cucina di campagna dalle maioliche bianche e azzurre
dove cenasti; di fronte alla teca che conserva la tua preziosa implacabile grafia;
nella vertigine delle tue ancora sconosciute, sparse, alacremente custodite lettere nel mondo;
dei frammenti d’affetto di chi ancora parla di te, parlando di sé stesso; chi innalza monumenti
di carta e di parole; chi ti dipinge in quadri sempre insufficienti; noi che non sappiamo
come andarono le cose; che cerchiamo tra la polvere la risurrezione;
la leggenda che sia meglio morire presto o non essere mai stati;
a chi dunque andranno le chiavi dell’essere? Chi l’erede di Dio? Noi che lo nominammo non vogliamo
esserne i padroni? Cosa ci spaventa, cosa non vediamo?
Una stanza, un letto che sembra una barca senza remi: fosti mai qui? Anche quando fosti. Non lo credo.
Altri mari ti appartengono. Vedute profonde dove la nitidezza non sottrae lo stupore.
Vero e bellezza coincidenti. Ciò che ti parve impossibile finché ti muovesti tra queste pietre
sbriciolate dove ti cerchiamo. Fiori e sole; poi notte e rovine.
Ti vidi passare sulla carrozza di una metropolitana: un lampo di conforto. Mi seguisti
al supermercato e all’ufficio postale, salisti le scale con me aiutandomi a portare i sacchetti,
senza pretese; quando distrutta mi tuffai nel letto ti dissi: vienimi accanto.
Fu naturale trovarti nell’assopimento della vigile coscienza e nell’assurdo.
Fui modesta e fui premiata; chiesi e mi fu dato, come insegnato dalla prima notte dei tempi.