
Ti ho fotografato tra rami di mandorlo che sembravano merletti
lì dove all’improvviso mi sono apparsi i tuoi occhi togliendomi il fiato
come ricami di un velo da sposa e le ossa dei morti, bianchi
fiori assiepati che non lasciano
vedere il nero dei rami, ma soltanto il cielo nel contrasto
di una stampa giapponese. Fra il bianco
folle e voluttuoso delle piccole corolle apparvero
quegli occhi seri, da fermare il mondo. Ti dissi: “Facciamo un servizio fotografico”. Su carta lucida e spessa, come una volta, lo intitolerò “Gli occhi di G.” “D’accordo.” E mi divertisti
giocando alla luna che compare tra le nubi: i tuoi occhi tra quei fiori di mandorlo. Pesante dolcezza sul cuore
di non sapere lasciarti. Trovammo un gruppo
di mandorli di tarda fioritura, i legni
opachi ancora esposti, grossi per i troppi
pochi fiori; pensai ch’erano brutti, ma tu
vi poggiasti una mano, come avorio su polvere
compatta di caffè: il ramo e la mano
avevano la stessa forza, e li fotografai, come
prima gli occhi, senza
immaginare di potervi rinunciare. Poi ti distesi sull’erba, e ti fotografai
ancora, pensando al titolo del servizio, il quale s’ingrossava
di sempre nuove immagini e significati attorno a te;
ti fotografai sulla terra bruna, spoglia di tutto, dove brillavi come le lacrime
delle cose create e il sorriso
di chi ha scoperto
l’amore a tarda notte. “Gli occhi di G.”
“Le mani e gli occhi di G.”
“G. sulla terra”; ma significando, quella, già corpo,
e cielo.