Servizio fotografico

Ti ho fotografato tra rami di mandorlo che sembravano merletti

lì dove all’improvviso mi sono apparsi i tuoi occhi togliendomi il fiato

come ricami di un velo da sposa e le ossa dei morti, bianchi

fiori assiepati che non lasciano

vedere il nero dei rami, ma soltanto il cielo nel contrasto

di una stampa giapponese. Fra il bianco

folle e voluttuoso delle piccole corolle apparvero

quegli occhi seri, da fermare il mondo. Ti dissi: “Facciamo un servizio fotografico”. Su carta lucida e spessa, come una volta, lo intitolerò “Gli occhi di G.” “D’accordo.” E mi divertisti

giocando alla luna che compare tra le nubi: i tuoi occhi tra quei fiori di mandorlo. Pesante dolcezza sul cuore

di non sapere lasciarti. Trovammo un gruppo

di mandorli di tarda fioritura, i legni

opachi ancora esposti, grossi per i troppi

pochi fiori; pensai ch’erano brutti, ma tu

vi poggiasti una mano, come avorio su polvere

compatta di caffè: il ramo e la mano

avevano la stessa forza, e li fotografai, come

prima gli occhi, senza

immaginare di potervi rinunciare. Poi ti distesi sull’erba, e ti fotografai

ancora, pensando al titolo del servizio, il quale s’ingrossava

di sempre nuove immagini e significati attorno a te;

ti fotografai sulla terra bruna, spoglia di tutto, dove brillavi come le lacrime

delle cose create e il sorriso

di chi ha scoperto

l’amore a tarda notte. “Gli occhi di G.”

“Le mani e gli occhi di G.”

“G. sulla terra”; ma significando, quella, già corpo,

e cielo.

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Nella realtà

Ti parlerò, imparerò, mi cambierai,

andrò in pezzi, mi scioglierò, prenderò forma in uno spazio nuovo,

appellerò il mancante, troverò l’impensato, non espirerò vuoto, non sarai attimi

da legare in riassunto, saremo sintesi arditamente ellittica, estremo coagulo, esattezza, punto.

Anima che si vede dagli occhi

Parole d’amore

trovate per caso

nello specchio di pagine

raccolte e asciugate

come lacrime lontane

e carezze di fiori:

“Luna di primavera

fronte di ampi pensieri

Anima che si vede dagli occhi

occhi d’acqua sorgiva

bambino abbracciato agli alberi

giovane fra secoli di libri

farfalla crepuscolare

bruna notte

simbolo

fantasma

angelo

desiderio e guida,” rischiari anche

l’ombra della morte.

Un colosso, una meschinità (dal parlare dolce e modesto) (F. De Sanctis)

Non sappiamo come fosse davvero. Dal suo ritratto da giovinetto e dalle descrizioni del Ranieri, credo che la sua fronte fosse ancora più ampia di quanto raffigurato in questo monumento. Nessuno ha mai ritratto le sue mani mentre era in vita. In questo tributo dei suoi concittadini posto nella piazza del Municipio, le sue mani sono appena sbozzate, scabre alla luce. Denunciano un difetto di documentazione, una mancanza, un’assenza, che si cerca di riempire con l’immaginazione. Io me le immagino come quelle di un ragazzo, non particolarmente affusolate né eleganti, le unghie e i polpastrelli della destra spesso macchiati d’inchiostro, perché non credo che perdesse molto tempo a lavarsele. Di questa statua mi piacciono soprattutto la lunghezza, la pesantezza e la texture del cappotto che avvolge la figura, come in un altero gesto di protezione dal mondo, dal quale si sentiva ferito con mille punte. “Piccolo, hai freddo? Stamane ci saranno quattro gradi”. Mi ha detto di no, porgendomi il cappotto perché, dice, per ora serve molto di più a me.

Sopra il ritratto di un poeta giovane

[…] Non sono felice. Non ho riposo. Immagino la stanza dov’è il tuo ritratto, di notte, a luci e voci spente. Vorrei che la notte durasse per sempre, e potessimo stare soli, io e te, senza che mai facesse giorno.

Andiamo lontano da tutto e tutti, sono certa che non se ne accorgerebbero. Continueranno a vendere e comprare biglietti e merchandising. Continueranno a sentirsi importanti perché sfiorano il tuo mondo. Di tutti loro, chi ha preso così tanto da te, come ho fatto io, senza chiederti il permesso perché avevo fame, perché stavo per morire?

[…]

Da un po’ non riesco ad affidare la mia vita a te, ti prego soltanto di portarmi via. O di farti portare via da me, tanto non se ne accorgerebbe nessuno. Lascia che continuino nel loro viavai, rovinando con il loro fiato il tuo ritratto che impallidisce come una luna velata nel cielo, i tuoi occhi che appaiono sempre più lucidi, il contorno arrossato dal contrasto con il crescente pallore. Via da questa polvere, seppur dorata, da questa malattia che non guarisce. Vieni a sorridere, ridere, essere il più forte di tutti, con me.

La noia

Ti dichiaravi insoddisfatto di qualunque cosa terrena, e nell’immaginare l’Universo intero, con il suo inestimabile numero di mondi, sentivi ch’era anch’esso insufficiente e piccolo per il tuo animo e il tuo desiderio. Innanzitutto vorrei dirti che immaginare non è sperimentare. Per quanto con il pensiero induttivo confidente nella logica, che tu praticavi, possono persino essere condotti esperimenti scientifici senza neppure toccare un alambicco, la realtà ha un elemento di sorprendente imponderabilità che io chiamo la sua magia (scientificamente chiamata teoria del caos).

L’universo non è infinito; il vuoto – se avesse estensione – lo sarebbe. Infatti dicevi che l’essere è nient’altro che un neo – un difetto – del nulla, e ch’è così poca cosa di fronte all’estensione del nulla, da poter essere considerato, senza molto scarto d’errore, anch’esso nulla. La tua frase, altamente suggestiva e seducente per estremismo, epitome della tua filosofia è, appunto, l’essere è il nulla.

Capisco che immaginare infiniti mondi sostanzialmente identici fra loro, rocce e gas, e tutte le stelle come repliche del sole, non sia di nessuna soddisfazione. Perché in tutto ciò, noi rimarremmo uguali: prigionieri, per quanto sia grande la prigione.

Ma di cosa, realmente, si è insoddisfatti, dei molteplici mondi o della propria condizione? Se fossimo liberi da tutti i nostri problemi fisici e psicologici (in primo luogo relazionali), e potenti di tutto, saremmo ancora insoddisfatti? Credo certamente che lo saremmo meno. Nella vita pratica non vi è assolutezza, ma parzialità. Non vi è tutto o nulla, ma meno e più. La psicologia non è filosofia.

Se credi, come hai detto nella Storia dell’Umanità, che l’amore corrisposto rende beati a un passo da quanto siano gli dei, vorrei saperti immerso in un’infinità d’amore, non da immaginare, ma da sperimentare in tutta la sua magia. Per una persona di eccelsa, e direi ineguagliabile, levatura morale come te, sarebbe l’elemento naturale. Altrove non potresti vivere.

Ti auguro una gioia che non solo ti basti, ma oltrepassi la misura. Così che l’unica insoddisfazione residua sarebbe di non poterla abbracciare tutta. Ma conciliare la completa conoscenza (che abbia, quindi, un oggetto finito) con l’infinità del nostro desiderio (appagabile da un oggetto infinito), è un problema di cui penso non verrò a capo. Quindi mi affido a te, con questa preghiera:

“Tu che creavi con le parole, perché ne vedevi l’origine, la storia e le accezioni, tu che ri-creavi la psiche umana scomponendola in tutti i suoi elementi costitutivi, dai più arcaici fino a quelli che ci rendono uomini contemporanei infelici, diventa il Santo patrono di chi si annoia. Inventa per noi la condizione in cui finalmente potremmo amare l’essere.”

“Cose strane”

Giorni fa ho fatto una risonanza magnetica per vedere se la mia “quota tissutale” attorno al nervo acustico fosse cresciuta.

Durante l’esame diagnostico, per superare la claustrofobia, ho recitato tutte le preghiere che ricordo, tranne il Credo perché è troppo lunga, e il Salve Regina perché quelle parole, “gementi e piangenti in questa valle di lacrime”, mi sembrano anacronistiche e melodrammatiche.

A un certo punto, forse dopo un Eterno Riposo o un Angelo di Dio, un fantasma mi ha chiesto gentilmente: “Posso darti un bacio?” Trattandosi di un fantasma a me molto caro, gli ho detto subito di sì.

Solitamente, il suo contatto mi dà una sensazione di vento freddo o di brividi, o entrambi. Stavolta, invece, ho sentito calore su tutto il viso, oltre a una leggerissima pressione, quasi un solletico prolungato, nel punto del bacio.

Una delle mie preoccupazioni, nel caso fosse stato necessario un intervento chirurgico per asportare la quota tissutale, era la rasatura dei capelli in una zona della calotta cranica. Si sa, le femmine sono vanitose: pure nei peggiori momenti, pensano alla bellezza.

Il fantasma, durante il contatto, mi ha dato la sensazione che, con una sorta di malinconica ammirazione e benevolenza, mi dicesse che gli piaceva, di tanto in tanto, accarezzarmi i capelli. Poi il suo stato d’animo è mutato repentinamente, e dalla malinconia è passato ad una forte volitività. Mi ha detto di slancio una frase d’amore che qui non trascrivo ed io ho sentito ancora più calore su tutto il viso.

Ringrazio il fantasma che mi ha rallegrato durante la risonanza magnetica. L’altro ieri sono andata a ritirare il referto, e della quota tissutale non vi è traccia. I nervi acustici si presentano normali, non vi è nulla da segnalare.

L’ateismo, o quantomeno il laicismo tollerante, sono conquiste del pensiero irrinunciabili, però un Padre Nostro o un’Ave Maria, mentre siete sotto un arco di pietra nuragico o sotto la volta di un macchinario per la risonanza magnetica, diteli, ogni tanto, e fatemi sapere se anche a voi accadono “cose strane”.

Come immagino la fine (The sweetest end)

Non c’è più casa natale né casa in cui sei morto, non alte librerie, non più pareti.

Non sei nei luoghi angusti; non c’è più erba né albero; sono rimaste

le stelle da guardare, per immersione fra i loro spazi

violetti al principio di uno spettro di colori da conoscere;

gli atomi nudi dai loro veli, come vuoto ed energia, movimento che fu misura

del tempo illusorio; vivono senza morire, evolvono senza cambiare.

Tutto questo penso in una cucina di campagna dalle maioliche bianche e azzurre

dove cenasti; di fronte alla teca che conserva la tua preziosa implacabile grafia;

nella vertigine delle tue ancora sconosciute, sparse, alacremente custodite lettere nel mondo;

dei frammenti d’affetto di chi ancora parla di te, parlando di sé stesso; chi innalza monumenti

di carta e di parole; chi ti dipinge in quadri sempre insufficienti; noi che non sappiamo

come andarono le cose; che cerchiamo tra la polvere la risurrezione;

la leggenda che sia meglio morire presto o non essere mai stati;

a chi dunque andranno le chiavi dell’essere? Chi l’erede di Dio? Noi che lo nominammo non vogliamo

esserne i padroni? Cosa ci spaventa, cosa non vediamo?

Una stanza, un letto che sembra una barca senza remi: fosti mai qui? Anche quando fosti. Non lo credo.

Altri mari ti appartengono. Vedute profonde dove la nitidezza non sottrae lo stupore.

Vero e bellezza coincidenti. Ciò che ti parve impossibile finché ti muovesti tra queste pietre

sbriciolate dove ti cerchiamo. Fiori e sole; poi notte e rovine.

Ti vidi passare sulla carrozza di una metropolitana: un lampo di conforto. Mi seguisti

al supermercato e all’ufficio postale, salisti le scale con me aiutandomi a portare i sacchetti,

senza pretese; quando distrutta mi tuffai nel letto ti dissi: vienimi accanto.

Fu naturale trovarti nell’assopimento della vigile coscienza e nell’assurdo.

Fui modesta e fui premiata; chiesi e mi fu dato, come insegnato dalla prima notte dei tempi.